Risposta della CGUE in tema di indennizzo per confinamento di lavoratori frontalieri, ne parla Alessandro Marchese

L’avv. Alessandro Marchese, associate dello Studio, commenta una interpello alla CGUE su una vicenda transnazionale avvenuta durante la pandemia. La Corte ha fatto chiarezza sulla differenza tra “malattia” e “confinamento” e sulle condizioni necessarie perché sorga il diritto all’indennizzo.

Protagonisti della vicenda due lavoratori, di nazionalità rispettivamente ungherese e slovena, che hanno dovuto rimanere a casa in isolamento dopo essere risultati positivi al Covid-19. L’azienda datrice di lavoro è situata in Austria, pertanto della loro positività al virus era stata informata l’autorità sanitaria austriaca. Tuttavia essi hanno ricevuto l’ordine di rispettare il confinamento dalle autorità dei Paesi di cui sono rispettivamente cittadini.

Poiché questa forzata assenza dal lavoro ha provocato ai due frontalieri un danno patrimoniale, essi si sono rivolti alle autorità giudiziarie austriache le quali a loro volta hanno interpellato la CGUE. Se la decisione di osservare il confinamento fosse stata fondata su un provvedimento amministrativo in applicazione della normativa interna austriaca, infatti, essa avrebbe fatto sorgere il diritto ad un indennizzo.

Purtroppo ai due lavoratori sono state negate prestazioni assistenziali risarcitorie a causa della loro situazione particolare. Da un lato la Corte ha chiarito che l’assenza per confinamento non è riconducibile a “malattia”, dall’altro la sorte di “triangolazione” che si è verificata li ha esclusi dalle tutele risarcitorie concesse al lavoratore quando cittadino del medesimo Paese in cui lavora.

L’avv. Alessandro Marchese commenta la sentenza per QuotidianoPiù, rivista online di Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A., in quanto fornisce chiarimenti interessanti su una materia particolare e poco conosciuta.

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Le mansioni del sostituto nel contratto a termine di sostituzione per maternità

La sentenza 13 giugno 2023 del Tribunale di Novara si è pronunciata sull’inquadramento delle mansioni del sostituto in un contratto a termine per sostituzione per maternità.

L’avvocato Alessandro Marchese, associate di Ichino Brugnatelli e associati l’ha commentata per Quotidiano Più di Giuffrè.

La vicenda oggetto del giudizio deciso dal Tribunale di Novara

Un lavoratore assunto a tempo determinato, successivamente alla cessazione del rapporto per intervenuta scadenza, ha convenuto in giudizio l’azienda sostenendo che la sua assunzione fosse avvenuta per la sostituzione di una lavoratrice assente per maternità e che per tale ragione egli avrebbe avuto diritto al riconoscimento del medesimo inquadramento contrattuale applicato alla lavoratrice sostituita perché avrebbe svolto identiche mansioni, con conseguente diritto alle relative differenze retributive. Parimenti, il lavoratore rivendicava anche di aver maturato differenze retributive in virtù dello svolgimento di lavoro straordinario.

Alessandro Marchese ripercorre gli argomenti portati da entrambe le parti, che offrono interessanti spunti di approfondimento, e commenta l’orientamento giurisprudenziale espresso dalla sentenza.

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L’avv. Alessandro Marchese sui concetti di giusta causa e proporzionalità nel licenziamento disciplinare

Per Quotidiano Più, il nostro giuslavorista commenta la sentenza n. 10124 del 17 aprile 2023, nella quale la Corte di Cassazione ha ricostruito ed approfondito le nozioni di giusta causa e proporzionalità alla luce del loro carattere di “clausole generali”.  Nell’ambito di un licenziamento per giusta causa, la Corte ha evidenziato che, al fine di una corretta interpretazione, i concetti di giusta causa e proporzionalità devono essere concretizzati.

Le parti del procedimento erano un istituto bancario ed un suo dipendente, licenziato a seguito di un procedimento disciplinare per non avere osservato il Codice di Comportamento interno adottato dalla Banca.  Aveva fatto accesso arbitrariamente e senza giustificazione ad alcuni rapporti bancari intestati ai clienti tramite il sistema informatico della Banca, violando altresì alcune disposizioni normative in tema di privacy. Inoltre erano riconducibili al dipendente attività di contabilizzazione di operazioni riferibili ai suoi figli. Queste condotte avevano reso possibili altre azioni delittuose di natura truffaldina, commesse però da terzi.

Nel procedimento di primo grado, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento, chiedendo al Giudice (Tribunale di Benevento, sezione lavoro) che, accertatane la illegittimità, condannasse la Banca alla reintegra del dipendente nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno. Il tribunale aveva comunque dichiarato risolto il rapporto di lavoro, ma contro la sentenza entrambe le parti avevano presentato ricorso alla Corte d’Appello.

Prendendo spunto da tale vicenda, la Corte di Cassazione ha puntualizzato che “I concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma“.

Riguardo alla proporzionalità, la Suprema Corte ha chiarito che “l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 26010 del 2018).”

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Domanda riconvenzionale e chiamata del terzo, l’avv. Alessandro Marchese ne parla su Quotidiano Più

Per il portale d’informazione di Giuffrè Francis Lefebvre dedicata ai professionisti, alle aziende e all’innovazione, il nostro giuslavorista commenta la sentenza n.67 della Corte Costituzionale pubblicata in data 11 aprile 2023.

La Corte ha esaminato due istituti processuali ricorrenti: la domanda riconvenzionale e la chiamata del terzo nel rito del lavoro la cui disciplina è contenuta negli articoli 418 (comma 1) e 420 (comma 9) del codice di procedura civile. Nella specie, il Giudice a quo (Tribunale di Padova, Sezione Lavoro) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle predette norme in ragione dell’assunta violazione degli articoli 3 e 111 (comma 2) della Costituzione nella parte in cui non è previsto che, ove il convenuto intenda chiamare in causa un terzo, egli debba chiedere al giudice, a pena di decadenza – nella memoria difensiva depositata ex articolo 416 del codice di procedura civile – che, previa modifica del decreto ex art. 415 (comma 2) del codice di procedura civile, pronunci un nuovo decreto per la fissazione dell’udienza.

Nelle considerazioni in diritto, la Corte ha precisato che «nel processo del lavoro, richiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo nella memoria tempestivamente depositata, è solo all’udienza di discussione che il giudice provvede sulla relativa istanza, rinviando, se autorizza la chiamata, ad una successiva udienza per consentire che la stessa venga effettuata nel rispetto del termine a difesa del terzo.

In effetti, con riguardo al processo del lavoro non si è mai dubitato del potere discrezionale del giudice di verificare, ai fini dell’ammissione della chiamata del terzo, la sussistenza dei relativi presupposti (ex aliis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 9 febbraio 2016, n. 2522; 4 dicembre 2014, n. 25676 e 26 giugno 1999, n. 6657).

L’esigenza di questo vaglio autorizzativo del giudice del lavoro sull’istanza di chiamata in causa del terzo da parte del convenuto – che, per lungo tempo, non è stato invece ritenuto necessario nel processo ordinario di cognizione – era correlata, tra l’altro, almeno in origine, anche alle non trascurabili problematiche processuali che avrebbero potuto determinarsi per effetto della chiamata.

Per un verso, veniva in rilievo l’impossibilità di attuare il cumulo delle cause assoggettate a riti diversi; ciò che comportava la necessità che la “causa comune” e quella di garanzia fossero entrambe cause di lavoro perché il giudice del lavoro potesse decidere anche su di esse nell’ambito di un unico processo.

Questa possibilità è ormai da tempo riconosciuta dal terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ., come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile), che stabilisce espressamente la possibilità del cumulo, e dunque della trattazione congiunta, con applicazione del rito del lavoro, ogni volta che, nei casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ., più cause, di cui una di lavoro, siano «cumulativamente proposte, o successivamente riunite».

Più oltre ha concluso che «che la scelta del legislatore, quanto al processo del lavoro, di rimettere all’udienza di discussione la decisione del giudice sull’autorizzazione, o  […] della chiamata in causa del terzo, […]  resta non irragionevole in quanto fondata ancora su una valida ratio giustificativa, che non ha smarrito la sua portata […] e che rappresenta essa stessa una peculiare declinazione del principio di ragionevole durata del processo, in coerenza con le finalità che connotano tale rito speciale».

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