Per HR Link, il giornale online dedicato ai professionisti delle risorse umane, il Senior Partner Carlo Fossati risponde a importanti domande su un tema dibattuto: la regolamentazione dello sviluppo e dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Lo scenario prospettato dall’Intelligenza Artificiale è davvero apocalittico?
Va intanto premesso che le risposte che possiamo dare oggi devono essere soppesate in relazione alla rapida evoluzione delle tecnologie. Detto questo, a mio avviso lo scenario è in effetti potenzialmente apocalittico, tanto che confido nel fatto che si prendano al più presto precauzioni per regolamentarlo. Si dovrebbe superare prima di tutto l’illusione che l’intelligenza artificiale potrà avere un impatto qualitativo simile a quello delle precedenti rivoluzioni industriali. Non si tratterà, a mio avviso, di qualcosa che, in ultima analisi, aiuterà semplicemente a produrre in modo più efficiente e più veloce, portando via soltanto qualche professionalità meno qualificata. Le caratteristiche dell’intelligenza artificiale, già per quello che si può vedere oggi, non sono tarate su una logica di supporto alle attività umane, ma di sostituzione intellettuale, che rende superflue per prime proprio le attività umane più qualificate e più creative. Si dovrebbe quindi mettere da parte anche lo scenario utopistico-idilliaco di chi pensa all’Intelligenza Artificiale come a uno strumento che ci libererà definitivamente dal lavoro e ci darà il tempo per dedicarci all’ozio creativo. Nell’ipotesi che si riescano a correggere quegli errori che per il momento rendono la supervisione umana imprescindibile, ci incamminiamo verso uno scenario in cui le attività lavorative che resteranno riservate all’uomo saranno quelle meno qualificanti.
Qual è oggi e quale sarà dunque in prospettiva l’impatto dell’IA sui modelli organizzativi delle aziende?
Non c’è dubbio che occorra un ripensamento etico che obblighi chi sta investendo miliardi di dollari su questo tipo di tecnologia a governare il processo, altrimenti si va in una direzione potenzialmente pericolosissima. Per loro stessa ammissione, chi studia questi fenomeni dal punto di vista tecnologico non ha ben chiaro come l’IA si possa sviluppare sui diversi percorsi di apprendimento. Significa in estrema sintesi che si costruisce una macchina che non si sarà in grado di governare. A quel punto non ci sarà regolamentazione del diritto del lavoro che regga. Elon Musk ha parlato del concetto vago di un reddito universale per chi non avrà più un lavoro a causa dell’IA, ma forse non ci si rende conto della portata sociale di una affermazione di questo tipo, ancor peggio della distopia di Orwell, dovremmo fermarci molto prima.
Qual è la “sfida” dal punto di vista del diritto del lavoro e quali interventi sono necessari?
Il tema è complesso e di fronte a una rivoluzione tecnologica della portata dell’IA si dovrebbe avere il coraggio di ripensare il diritto del lavoro dalle fondamenta, a partire dal concetto di flessibilità, da non intendere più soltanto nella logica del licenziamento facile.
Si è spesso sentito parlare del Jobs Act del 2015 come di uno strumento di riforma in tal senso, e per alcuni aspetti è stato così, ma per altri era all’opposto. Si pensi per esempio all’introduzione della collaborazione etero-organizzata, cioè di un lavoro autonomo organizzato però dall’azienda per quanto attiene i tempi e il luogo della prestazione, al quale necessariamente ineriscono tutte le norme sul lavoro subordinato. La realtà è che a essere arcaico è proprio il concetto stesso di antiteticità tra lavoro subordinato – ossia il dipendente che mette a disposizione le sue energie lavorative per un determinato tempo – e lavoro autonomo – il collaboratore che è libero di organizzare il lavoro come vuole, ma risponde dei risultati.
Questa contrapposizione risale agli articoli 2094 e 2222 del 1942 del Codice civile ed è superata nei fatti già da anni. Noi giuslavoristi siamo obbligati a fare “salti mortali” per cercare di adattare questi paradigmi al lavoro di oggi. Ne è un esempio lo smart working, che di fatto impone che le prestazioni siano misurate per obiettivi e controllate tecnologicamente da remoto, qualcosa che il nostro ordinamento giuridico ancora non prevede o comunque ostacola fortemente.
Per questo dobbiamo pensare a costruire un paradigma del lavoro nuovo, è l’infrastruttura giuridica che deve diventare davvero flessibile, per potersi adattare a modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative che con l’impatto dell’IA saranno necessariamente molto diverse.
Quali sono i rischi per i lavoratori?
I rischi per i lavoratori sono potenzialmente enormi ed è proprio per questo che il processo va governato. È chiaro che il primo rischio sia la sostituzione del lavoro professionalmente qualificato, ma il tema è complesso.
Da un lato, si dovrebbe prendere in considerazione la flessibilizzazione estrema di cui ho parlato e, dall’altro, c’è la necessità di garantire e tutelare le fasce più deboli. Oggi abbiamo già una situazione di evidente scollamento tra chi usufruisce in pieno di tutele, come i dipendenti di grandi aziende con contratto a tempo indeterminato ante-2015, e chi ne avrebbe invece più bisogno, come i collaboratori occasionali che tecnicamente sono lavoratori autonomi e di tutele – paradossalmente – ne hanno pochissime.
Questa discrasia andrebbe corretta così come bisognerà pensare anche alla modulabilità delle tutele, adattando l’ordinamento giuridico a una situazione socio-economica nuova e infinitamente più sfaccettata.
La storia del nostro diritto del lavoro è ricca di spunti in questo senso, esistono capisaldi in materia che già negli anni 70 e 80 parlavano di subordinazione come concetto socio-economico prima ancora che giuridico. Infine, nel mondo del lavoro che verrà, sarà sempre più decisiva la capacità dell’Italia di attrarre gli investitori stranieri e di parlare un linguaggio facilmente compatibile con le loro logiche di investimento. La flessibilità legata al tema del licenziamento, in un mercato del lavoro che funziona bene, diventa un tema di indemnification adeguata. Dobbiamo finalmente liberarci degli strumenti che rendono incerto il costo del disinvestimento, non per far risparmiare le aziende a danno dei lavoratori (chi investe in Europa continentale sa bene che licenziare gli costerà caro e lo accetta), ma nell’ottica di poter quantificare in anticipo e con certezza, in caso di licenziamento, il costo che l’azienda dovrà affrontare nel worst-case scenario: l’incertezza è il nostro vero gap di competitività rispetto ad altri paesi simili al nostro, e non possiamo più permettercela, a maggior ragione ove si consideri che, nei fatti, la reintegra già oggi non viene quasi mai applicata.